Ritengo opportuno approfondire alcuni aspetti riguardanti i fondamentali di kumitè, che in Italia iniziarono a essere introdotti dalla metà degli anni ‘70 in poi.
Fu un periodo di grandi cambiamenti, in cui la fantasia dei karateka occidentali iniziò a sperimentare e affinare nuove tecniche, metodologie e strategie di combattimento, scavalcando il pragmatismo giapponese. Tali tecniche e combinazioni dovevano essere poi ridotte al rango di kihon (fondamentali) per essere usufruibili dagli allievi.
Faccio notare che alla scuola del M° Shirai non erano molte le occasioni in cui si poteva combattere, tanto è vero che con i compagni dell’epoca ci allenavamo nel jiù kumitè (combattimento libero) prima della lezione (più spesso con Scutaro e Fabozzi [oss], data la nostra super puntualità: ci presentavamo mezz’ora prima dell’inizio).
Poi, nel ’78, fui convocato, insieme a Ofelio Michielan, nella nazionale unificata Fik–Fesika per il kumitè (disobbedendo al garbato invito del M° Shirai che mi chiese di ritirarmi: ma avevo solo 26 anni e lui capì…).
Ebbi in quell’occasione l’opportunità di incrociare i guantini (allora i para-nocche) con campioni italiani e stranieri di grande spessore, come gli olandesi Reutoff e Kotzebue, gli inglesi Charles, Wahit, Sailzman, i francesi Montama e Ruggero, oltre ai nostri Ricciardi, Di Luigi, Mavilla (oss)…, e sto parlando solo di pesi massimi!
Il risultato fu una visione più eclettica e duttile del kumitè, e la messa a punto di tutta una serie di kihon propedeutici al combattimento, fatti di nuove posizioni, nuove coordinazioni, nuovi modi di gestire i muscoli, la mente e gli automatismi.
Qualcuno potrebbe pensare che la parola kihon sia riferita ai soliti ageuke, gedanbarai, o combinazioni sul tema. No, sbagliato! I kihon di combattimento parlano una lingua diversa, essi partono da posizioni e movimenti basici differenti che vanno esercitati in modo dedicato affinché diventino automatici, esattamente come si chiede nei movimenti di kata, i cui fondamentali sono appunto ageuke, gedanbarai, o combinazioni sul tema…
La strategia sorgente è quella di esplorare la tecnica di uno scambio reale con la stessa cura con cui si esercita il bunkai di kata, poi analizzare i vari aspetti, infine tradurre in kihon (eseguito sia a vuoto che a coppie).
La ripetizione in grande quantità delle situazioni create porta ad acquisire confidenza negli scambi, sicurezza nei movimenti, controllo dei colpi e un’ampia gamma di soluzioni tecniche, tattiche e strategiche. E, aggiungo, anche divertenti. Alla portata di tutti, non solo degli specialisti.
Si apre così anche un nuovo capitolo nei Dojo, dove il kumitè entra a titolo paritario col kata (soprattutto in termini di monte ore), perché disponibile senza tensioni per tutte le fasce di utenti. Compresi i bambini, che possono lottare gioiosamente senza pericoli (sto parlando di jiù kumitè, non di kihon ippon o jiù ippon).
Con tutte le eccezioni del caso, nei Dojo il monte ore dovrebbe essere diviso in 4 parti uguali: 1/4 kihon–kumitè, 1/4 kihon–kata, 1/4 kumitè (non per forza jiù), 1/4 kata.
Il kumitè non è legato agli stili, ma al risultato, perciò da tutto il mondo (scuole, campionati, atleti, maestri) arrivano contributi al suo sviluppo evolutivo. Considero gli amanti del kumitè come una grande comunità open source ricca di maestri e atleti che pensano, progettano, propongono, sperimentano.
Mi ricordo che in quegli anni ripresi fra gli altri l’ashi-barai, di cui approfondii le modalità tecniche, estraendone il khion propedeutico.
Eccolo:
Ashi-barai kihon-kumitè: (spazzata di gamba: nello specifico con la gamba posteriore su quella anteriore).
Prerequisiti:
– abbassare il baricentro al momento dell’attacco, flettendo il ginocchio d’appoggio;
– mantenere il ginocchio flesso della gamba di attacco (per dare più spinta e proteggere l’articolazione;
– tenere il piede della gamba di attacco a taglio (sokuto).
Esercizi fondamentali:
1) camminare sul taglio del piede per comprendere e abituarsi alla postura dello stesso (sokuto);
2) ripetute sulla traiettoria a “elle” del movimento di attacco: a) da fermi b) camminando;
3) ripetute con chiusura forzata delle cosce (per capire lo sforzo di spinta e costringere alla flessione entrambe le ginocchia);
4) a coppie statiche serie di ripetizioni con lo sguardo non rivolto al punto di attacco (l’impatto avviene con l’arco plantare di uchi, attaccante, appena sopra il malleolo esterno di uke, difensore);
5) enfasi sul fatto che ashi-barai non è un colpo ma una spinta (quindi appoggio e spingo: la tecnica deve sradicare da terra la gamba avversaria, perciò la spinta non si esaurisce con l’impatto, ma prosegue oltre).
Una volta acquisita confidenza, studiare il tempo di esecuzione, in quanto un timing imperfetto porterà a “stamparsi” sul punto di resistenza; importante rispettare i tempi di apprendimento: a) coordinazione grezza b) coordinazione fine c) disponibilità variabile (solo in quest’ultima fase si passa ad applicazioni in movimento).
Nota: nel lavoro a coppie è consigliabile munirsi di parastinchi, visto il grande numero di colpi che si devono portare e ricevere per assimilare la tecnica.
Carlo Pedrazzini